martedì 27 agosto 2013

L'isola della spazzatura il Settimo Continente che minaccia il Pacifico

Immaginate di star facendo una crociera in barca a vela quando, nel bel mezzo del nulla, oceano a perdita d’occhio dappertutto, scoprite davanti a voi un’isola, anzi un continente. Questo è quanto è esattamente successo il 3 luglio del 1997 a Charles Moore, un velista americano. Dopo una regata alle Hawaii, rientrando verso la California con il suo catamarano “Arguita” decide, tanto il tempo è particolarmente buono e lui non ha fretta, di cambiare rotta rispetto a quella solita. Vira verso nord, verso una zona poco battuta perché soggetta a strane correnti marine e, tra l’altro, anche povera di pesce.

Ed ecco che, in un tratto d’oceano tra il Giappone e le Hawaii, scopre qualcosa di imprevedibile: un’immensa isola di rifiuti e detriti, l’Isola di plastica. La sua misura esatta non è ancora nota perfettamente: si stima un diametro che può arrivare sino a 2500 kilometri, cioè con una superficie tra 1 e 5 milioni di kilometri quadrati (ricordiamoci che l’Italia ne fa circa 300.000), con una profondità di circa 30 metri ed oltre 4 milioni di tonnellate di detriti. La densità del materiale è tale che questa isola di rifiuti raggiunge il peso di oltre 3,5 milioni di tonnellate.

Ma come si è creato questo “Vortice” chiamato il Pacific Trash Vortex, il Vortice di spazzatura dell’Oceano Pacifico? Il tutto nasce dalla presenza in quella zona di una corrente oceanica a spirale, la North Pacific Subtropical Gyre, che risucchia rifiuti e rottami dalle coste e dai fondali accumulandoli al centro del vortice. In effetti, il vortice, e quindi l’isola, è composto di due parti: una massa di rifiuti occidentale che va da 50 miglia nautiche al largo della California fino alle Hawaii e che si muove grazie a correnti che ruotano in senso orario; una massa orientale che va da queste ultime sino al Giappone ed è mossa da correnti circolanti in senso antiorario.

Fisicamente il fenomeno si produce perché in quella zona di oceano l’acqua circola più lentamente per l’assenza di vento ed una pressione atmosferica estremamente alta che blocca il tutto con facilità, come un enorme tappo atmosferico. E’ chiaro che il problema è serio per l’impatto devastante che ha sulla fauna e sulla flora marina e, di conseguenza, sulla catena alimentare.

Ricordiamo, infatti, che annualmente si stima una produzione mondiale di circa 100 miliardi di kili di plastica dei quali, grosso modo, il 10% almeno finisce in mare. Tenuto conto della maggiore attenzione ambientale di questi ultimi anni è presumibile, anche se non certo, che la “grande zuppa“ come è comunemente chiamato il fenomeno, si sia formata piuttosto tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta. Circa lo 80% è costituita da plastica che, poco biodegradabile, si è andata foto-degradando nel corso del tempo riducendosi in briciole minuscole che sono entrate nella catena alimentare dei pesci e dei molluschi.

Che il fenomeno sia serio lo dimostra anche una ricerca del 2001 che ha mostrato come in alcuni campioni di acqua marina la concentrazione della plastica arrivava ad essere sei volte maggiore di quella del plancton, alimento base della nutrizione delle creature marine. Oggi, in alcune aree, questo rapporto raggiunge il valore di 46 a 1.

Ma l’Atlantico è immune da questi problemi? Per niente, la plastica è presente un po’ dappertutto anche qui e si notano nuove discariche galleggianti di plastica soprattutto nella parte nord. La concentrazione più elevata si trova all’altezza di Atlanta, in Georgia, a 32 gradi nord ma la fascia si estende dai 22 ai 38 gradi nord; anche qui il fenomeno nasce a causa del gioco delle correnti dell’oceano e delle condizioni climatiche della zona.

Resta però un problema ancora irrisolto. Uno studio, pubblicato recentemente e durato 22 anni, dal 1986 al 2008, sembra indicare che il contenuto della pattumiera atlantica non è cresciuto in modo significativo nel tempo, questo nonostante lo sviluppo della produzione e dello smaltimento della plastica negli stessi anni.

Quali i motivi? Non sono chiari; potrebbero derivare da una maggiore attenzione nello smaltimento a terra oppure, è il caso più pericoloso, che il materiale sia “fluito” altrove e non sia stato ancora individuato oppure, caso ancora peggiore, che sia affondato con tutte le conseguenze del caso.
Il problema delle pattumiere del mare esiste e solo da poco sta prendendo spazio nell’attenzione collettiva, peraltro poco o nulla curato dalle autorità e dai governi.

Come al solito, da una parte intervengono i pesanti costi che questo monitoraggio richiederebbe, soprattutto nella fase successiva di eventuale smaltimento, dall’altra gioca il fatto che, dappertutto nel mondo, ci si occupa di un problema solo quando esso diventa pericoloso per l’uomo in maniera immediata, e talvolta nemmeno allora.

Il risultato è una mela avvelenata che stiamo lasciando alle generazioni future: eppure basterebbe poco per almeno arrivare a ridurre questo tipo di impatto: ridurre al minimo gli imballaggi ribaltando una prassi che li vede sempre più massicciamente presenti dappertutto, oggi addirittura elemento strategico nella politica di commercializzazione di un prodotto. Ci riusciremo? Non so, ma almeno potremmo cominciare a provarci, politici compresi.

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